Il male che si accanisce contro Giobbe non può più essere concepito come una punizione, poiché egli non ha commesso alcun delitto; non può più essere una vendetta, poiché egli non ha colpito nessuno. Nel trovarsi esposto alla violenza insensata della sofferenza Giobbe si trova immerso in una esperienza intraducibile. Resta solo il grido rivolto a Dio come il modo più radicale della domanda. La stessa che egli porta nell'etimo del suo nome: Giobbe significa nella lingua ebraica «dov'è il padre?» Domanda che sovrasta ogni possibile risposta. «Il dolore di Giobbe – come scrive Recalcati – non può essere ricondotto all'ordine del senso perché nessuna teologia, come nessuna altra forma di sapere, è in grado di spiegarne l'eccesso». Il grido di Giobbe accade quando le parole sono costrette al silenzio, spezzate dal trauma del male. Esso non è indice di rassegnazione ma di lotta e di resistenza. Dopo La notte del Getsemani e Il gesto di Caino, con Il grido di Giobbe continua l'intenso e sorprendente viaggio di Massimo Recalcati lettore della Bibbia, impegnato a rintracciare l'eredità più profonda del pensiero psicoanalitico che si concluderà, a breve, con un'ampia e attesa opera.
Autore
Recalcati Massimo
Titolo originale
Il grido di Giobbe
Traduttore
-
Editore
Einaudi
Collana
Frontiere Einaudi
Anno edizione
2021
In commercio dal
Formato
Libro rilegato
Pagine
112
Dimensioni
-
Codice EAN
9788806248727
Il grido di Giobbe
Recalcati Massimo - Autore
Il grido di Giobbe
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L'ho appena finito, perché anche se dico di non sopportare Recalcati, divulgatore cattolico della psicoanalisi, poi lo leggo sempre, dalla clinica lacaniana più stretta al pulpito un po' narciso, perché mi dico "devi conoscere bene il nemico". Ma, tra momenti di vero fastidio intellettuale, vivo pure momenti di affinità profonda, fatte salve le differenze di punto di vista, epistemologia e soprattutto di genere. Questo è uno dei saggi più belli, tra i divulgativi, per me che ogni tanto debbo farmi il tagliando sulla storia di Giobbe, di cui esistono moltissime letture diverse, che mi hanno sempre illuminata. Ora ripenso al film che finalmente ho visto tutto per intero ieri. Da incassi, ma bellissimo: "Elizabeth. The Golden Age". Il finale: la Regina, sola, accetta il suo destino carico di responsabilità, e il ruolo che non ha potuto scegliere e le sembra impossibile da ricoprire. E dopo grida straziate al Dio senza mediazione e senza grazia che suo padre le ha consegnato dopo averla privata anche della madre, non può che continuare a essere ciò che altri hanno fatto di lei, e solo lei sa incarnare così: volare come un'aquila sul mare in burrasca davanti all'aggressione impietosa del nemico. E lo so bene che era una guerrafondaia colonialista, come tutta la sua epica, così come credo che neppure i personaggi biblici siano stati dei santi. Ma il concetto di accettare il "destino", inteso come definizione del sé che non viene dal sé ma dall'Altro che non ci ha interpellato, vale la pena di essere indagato ovunque, quando la vita ci sembra insopportabile e nessuno sembra rispondere con una certezza al nostro bisogno di capire ed essere sollevati.