A partire dal 2005, il premio che Fahrenheit – il celebre programma di culto di Radio3 – assegnava, a dicembre, in occasione di Più libri più liberi, al “Libro dell’anno”, ha visto come vincitori autori del calibro di Roberto Saviano, Boris Pahor, Fabio Geda, Fulvio Ervas, Zerocalcare, Melania Mazzucco e Teresa Ciabatti. Ma quest’anno, Fahrenheit ha impresso una svolta nell’impostazione del premio, per ovviare a un sempre più stringente desiderio di “bibliodiversità”. È stato quindi naturale rivolgere l’attenzione sul vivace e variegato mondo della Piccola e Media Editoria, e premiare il miglior libro proveniente da quella realtà, per «colmare un deficit di attenzione verso un territorio attraversato da molte difficoltà, ma anche in continuo fermento».
A vincere questa “nuova” prima edizione di un premio che «di fatto rappresenta un caso unico nel vasto panorama dei premi letterari» è stato Febbre di Jonathan Bazzi, pubblicato da Fandango libri, in lizza assieme a Nero ananas di Valerio Aiolli (Voland), Vicolo dell’immaginario di Simona Baldelli (Sellerio), L’idioma di Casilda Moreira di Adrian Bravi (Exorma), Quella metà di noi di Paola Cereda (Perrone), Napoli mon amour di Alessio Forgione (NN), L’ora del mondo di Matteo Meschiari (Hacca), Una cosa oscura, senza pregio di Andrea Olivieri (Alegre), Cinzia di Leo Ortolani (Bao Publishing), Chilografia di Domitilla Pirro (Effequ), La prima vita di Italo Orlando di Carola Susani (Minimum Fax) e Il giorno della nutria di Andrea Zandomeneghi (Tunuè).
Già finalista del Premio Giuseppe Berto 2019, Febbre di Jonathan Bazzi è un libro spiazzante, sincero e brutale, nel quale l’autore affronta il tema della malattia e del destino – due veri e propri topoi della letteratura – attraverso un racconto autobiografico altamente catartico.
Jonathan ha 31 anni nel 2016 e un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre. Una febbre leggera ma costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce e lo fa sudare di notte. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta (grazie alla rete) un’infinità di autodiagnosi. Inizia la paranoia: pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. Poi arriva il test dell’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo. Però non sta morendo, per cui, nonostante la tremenda notizia, è quasi sollevato. A partire da quel giorno che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore accompagna il lettore indietro nel tempo, all’origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –, il Bronx del Sud di Milano, la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, Jonathan cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla predestinazione della periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.